Il cielo oggi è così perfettamente pulito che si può intuire la curvatura della stratosfera.
In Istria è la prima giornata fredda in questo autunno dell’anno più caldo su scala globale. Le creste di schiuma sulle onde sono una costellazione dispersa sulla superficie verde dell'Adriatico.
Questa costa è sempre battuta dal vento. Tronchi di pini centenari sono flessi come bambù, qualcuno dolcemente piegato ad arco, con la chioma cadente di lato, altri contorti e multipli come tentacoli, e certi crescono in diagonale. È una galleria d’arte eolica scolpita su materiale vivente.
La bora può modellare gli organismi. La vita a colpi di raffiche modifica alla lunga la direzione verso la quale si orientano e la loro forma. Funziona benissimo, e non solo con gli alberi.
Al largo della punta dove erbe e arbusti si fanno sottomettere dalle folate sature di pulviscolo d’acqua salata, una lanterna di segnalazione sopporta le irruenti spinte pelagiche.
Gli spiazzi di terra secca, le piattaforme di cemento, le spiagge di sassi sono deserte. Un basso edificio imbiancato a calce ha ancora le insegne e il menù esposti su una parete. Sul retro della costruzione affacciata sul mare si trova una struttura di legno, lo scheletro di una tettoia, una veranda aperta su tutti i lati dove nelle sere d’estate si cena e si balla. Adesso invece ci garriscono tende bianche strappate.
L’inaspettato sentiero di sabbia conduce davanti a un albergo dei primi del Novecento costruito sulle rocce appiattite dalle maree. Non sembra in cattive condizioni, ma porte e finestre sono murate.
Altri stabili più recenti accompagnano la linea di costa, costruzioni di geometria essenziale del tempo in cui la Jugoslavia socialista e non allineata riorganizzava l’industria turistica con brutale ingenuità innalzando palazzine coi balconi delle camere incassati nelle facciate.
I dieci piani dell’hotel Adriatic dominano il paesaggio. Non c’è ragione di credere che ci siano ospiti in questa stagione, ma la hall è illuminata e qualcuno ben imbacuccato sta consumando bevande calde sui tavoli all'aperto del bar.
Per arrivare alla cittadina si percorre un lungomare dove sono ormeggiati pescherecci e imbarcazioni da diporto. Dietro al filare di lecci c’è un parco con piante adatte a un'esposizione solare intensa e continua. Nei nuovi residence circondati da alte ringhiere, i giardini pensili e le terrazze compongono intricate geometrie solide.
Il tetto di un vecchio stabilimento di inscatolamento del pesce è sfondato, ma i suoi muri perimetrali sembrano come appena fatti, bianchi, un mosaico regolare di blocchi di pietra. Il terreno intorno è chiuso da una rete metallica. Sembra che l’elegante rudere sia stato acquistato già qualche anno fa da un italiano, non si sa bene per farci cosa. Al momento, è ancora una fabbrica in disarmo.
Nel centro di Umago solo due ristoranti sono aperti, l’uno a pochi passi dall’altro. È sabato, in giro non si vede nessuno, i negozi sono chiusi. Nella stessa strada riesco a contare quattro saloni di parrucchiera. Uno ha le luci accese, ma non c’è attività all’interno.
Si dovrebbe trovare il modo di far restare sveglie le piccole città di mare anche quando non è estate. L’economia stagionale avrà forse vantaggi a breve termine, ma fa sbiadire l’autenticità fino a farla scomparire. A quel punto, non sarà più molto interessante visitare o fermarsi in un posto che ha rinunciato al proprio spirito in cambio di sedie a sdraio, cocktail e crema solare..
La spiaggia comunale è in secca per la bassa marea. Tra i sassi scuri giocano due bambini coi piumini colorati. Nella piccola baia sono allineate vecchie case di pescatori con giardini, orti e cortili, e bar e ristoranti ora quasi tutti chiusi.
Fuori dall’unico bar aperto, giovani avventori fumano e chiacchierano davanti alle tazze di caffè sui tavolini sotto al sole. Un’unica barchetta ormeggiata in rada si potrebbe raggiungere con un salto dalle rocce ricoperte di alghe. Il loro odore salino mi arriva fortissimo nelle narici, come non lo sentivo da decenni.
Alla fine della baia, la diga protegge il porticciolo del lungomare dei lecci allungandosi in direzione della punta dove sorge l’hotel Adriatic. Per tornare verso il centro bisogna percorrere un altro tratto di costa alle spalle della baia, Riva Josip Broz Tito. Al Maresciallo è stata dedicata una marina di asfalto senza fascino adibita a parcheggio. Accanto a un vecchio albergo abbandonato c’è un modesto casinò, una sala giochi con sfavillanti insegne luminose.
Poco più avanti, tra le case si apre piazza Libertà, e da quel punto in poi la strada cambia nome e si chiama via Dante Alighieri. Cosa si direbbero il Maresciallo Tito e Dante se si incontrassero oggi qui, così come si incontrano queste due rive? Inizierebbero a discutere di libertà, e all’inizio si troverebbero d’accordo sulle linee generali. Scendendo più nello specifico, forse l’intesa andrebbe scemando e ci sarebbe qualche discussione, anche piuttosto animata..
In piazza Libertà non scorgo né un naso aquilino né il cappello con lo stemma e le decorazioni militari. Nel baretto all’angolo ci sono però due ragazze che si confidano amori impossibili davanti a un paio di birre.
Proseguo su Ulica Dante Alighierija, che si allontana dal mare e penetra all’interno, nella zona di edificazione recente, tra edifici pubblici, supermercati e discount, fino a una rotonda dove, solitaria e resistente come una partigiana, sopravvive una casetta di pietra adagiata su un morbido tappeto d’erba.
È ancora chiaro, la luna piena è già sorta e se ne sta azzurrina sopra il tabellone luminoso della stazione di servizio dove lampeggiano i prezzi del carburante.