“Migliaia di posti di lavoro disponibili”. “Le imprese italiane cercano lavoratori ma non li trovano”. “Il lavoro c’è ma le aziende non trovano personale”. “Introvabili 8 lavoratori su 10”.
Poca fantasia, i titoli si assomigliano, ripetuti e strillati in prima pagina. C’è carenza anche di bravi titolisti, sembra. Ecco come sarebbe più originale - e corretto - formulare qualche titolo:
“Le aziende non trovano più gente disposta a essere sminuita e degradata”. “Trattano con disprezzo intere generazioni di lavoratori e si stupiscono di non trovarne più”. “Se la sono cercata, e adesso non trovano più la manodopera”.
La tesi più comune per spiegare perché le aziende hanno difficoltà a trovare personale specializzato è che gli stipendi sono troppo bassi. È vero, gli stipendi in molti casi non sono solo bassi e inadeguati, sono soprattutto offensivi.
Ma non è questa la causa principale. Il vero motivo che sta provocando l’estinzione delle professionalità è la mancanza di rispetto.
Mancare di rispetto ai dipendenti rientra fra quelle strategie che si pensava fossero “aggressive” e “competitive”, mentre ci stiamo rendendo conto di quanto siano stupide e autolesionistiche.
Lo insegnano ancora adesso a certi corsi di management, che i lavoratori vanno trattati senza troppi riguardi. Solo che la gente ha cominciato a stancarsi.
Non tutte le aziende si dotano di un direttivo di briganti; quelle che decidono di stabilire leali rapporti di collaborazione coi propri dipendenti non fanno fatica a individuare e assumere figure professionali di rilievo, cioè persone affidabili e capaci di risolvere problemi.
Ma è proprio il modello manageriale autoritario e sprezzante a indurre la carenza di manodopera qualificata, da cui deriva una generale inefficienza e una qualità di servizi mediocre o decisamente scadente. Ne siamo ogni giorno testimoni: di qualunque prestazione o prodotto abbiamo bisogno, l’affidabilità è una rarità, al punto che ringraziamo con devozione e ci commuoviamo quando eccezionalmente accade che tutto funzioni come dovrebbe.
Dalle imprese locali medio piccole alle società per azioni, dalle cooperative sociali ai grandi gruppi multiutility, dagli studi professionali alle potenti e pervasive multinazionali, dai servizi logistici fino alla grande distribuzione, dall’edilizia alla metalmeccanica, sembra che, ancor più che fare profitto, sia importante schiacciare le persone, sottrarre loro tempo, dignità e senso dell’esistenza.
I cacciavite umani
Chi pensa che sia un’affermazione esagerata ha forse la fortuna di lavorare, e di aver sempre prestato servizio, in aziende virtuose che hanno cura dei propri dipendenti e li considerano una ricchezza. Soprattutto, i manager di queste aziende non dimenticano mai di essere in presenza di esseri umani, non di utensili, a differenza di un certo ingegnere che, da poco assunto in una media impresa che si occupava di manutenzione su impianti tecnologici, introdusse il cronometraggio degli interventi tecnici, cioè la stretta osservanza di tempi prestabiliti per l’esecuzione di particolari operazioni diagnostiche. Un metodo già di per sé alienante in una catena di montaggio, ma che in un contesto di ricerca e riparazione di guasti è completamente insensato. Non si può prevedere quanto tempo si impiegherà per individuare la causa di un malfunzionamento e il ripristino della normale attività.
Un caposquadra che non intendeva sottoporre i lavoratori a inutili pressioni che poi si sarebbero potute rivelare anche pericolose, visto che lavorare in fretta su parti meccaniche ed elettriche può essere fatale, fece notare all’ingegnere che seguire una tabella oraria rigorosa per quel genere di attività non era una buona idea.
La risposta fu: «Gli uomini sono attrezzi, devi usarli come fossero pinze, cacciaviti, tenaglie.»
Chiaro. Le persone, nel momento in cui indossavano la tuta, non possedevano più sensibilità, emozioni, non provavano fatica, e perciò meritavano la stessa considerazione che si accorda ad un arnese: utile, magari anche indispensabile, però nient’altro che un oggetto.
Far fare agli altri ciò che dovresti fare tu
Certe grandi aziende assumono professionisti e poi li mettono a svolgere attività secondarie che potrebbero essere affidate a persone molto meno qualificate. Uno spreco di risorse incredibile, apparentemente inspiegabile. Ma allora, se anche i più esperti sono sottoutilizzati, chi esegue materialmente i lavori specialistici, quelli che definiscono la missione aziendale? Il ricorso a oltranza a soggetti esterni, il cosiddetto outsourcing, è la pratica ormai dominante: far fare agli altri ciò che dovresti fare tu.
Questa politica di esternalizzazione è particolarmente diffusa quando l’azienda si aggiudica appalti pubblici. A breve termine, i costi sono più contenuti per l’azienda, anche se più alti per il committente pubblico, cioè per noi contribuenti, e le responsabilità ricadono tutte sul soggetto che prende l’incarico. Ma nel lungo periodo, l’effetto è proprio di non riuscire più a trovare gente che conosce il mestiere. Quelli che lo conoscevano vanno in pensione senza essere riusciti a trasmettere la loro conoscenza, perché per anni sono stati impiegati in mansioni di minor rilievo. E nel frattempo non c’è stata adeguata formazione per i più giovani, mandati allo sbaraglio a risolvere problemi senza un mentore e senza possedere le basi tecniche.
A loro volta le imprese esterne, essendo più piccole, raramente possono permettersi personale altamente specializzato, e quindi le prestazioni che offrono sono generalmente al di sotto degli standard di qualità richiesti. Senza contare poi che un sub-appaltatore non si sente pienamente coinvolto; c’è ben poca passione e senso di responsabilità in un incarico di cui si è semplici esecutori.
Un altro motivo per cui molti lavori vengono passati a imprese esterne è la possibilità di guadagnarci qualche bustarella. In alcuni casi è una prassi, un 10 o 20 percento dell’importo va nelle tasche del manager che si è messo d’accordo con la ditta appaltatrice.
Si può arrivare al punto che le imprese esterne fatturino regolarmente lavori che non eseguono perché non sono in grado o non hanno le competenze. In pratica, le operazioni continuano a essere svolte internamente dal personale dell’azienda, e l’impresa esterna incassa senza fare niente. Una truffa in piena regola.
Il furto del tempo
L’introduzione delle otto ore lavorative risale a più di un secolo fa. Tra le innumerevoli colpe del sindacato in Italia c’è anche quella di non aver mai intrapreso una seria campagna per la riduzione dell’orario di lavoro. Al contrario, stiamo paurosamente arretrando e il diritto ad avere il tempo di vivere è sempre meno scontato.
Mentre in altri paesi europei le sei ore giornaliere con weekend libero sono già la norma, qui non ci sono segni di evoluzione. E se per caso qualcuno ha bisogno di un contratto part-time, come nel caso di genitori con figli che non sono stati accolti all’asilo nido, la trattativa con l’azienda non sempre va a buon fine.
Le aziende premono sui dipendenti ed esigono prestazioni più ampie. Il ricorso sistematico agli straordinari è il metodo classico. È anche la dimostrazione di una scarsa capacità organizzativa: se gli straordinari sono la norma, allora qualcuno sta sbagliando tutto, se ci sono sempre questioni urgenti vuol dire che c’è una cattiva pianificazione.
Per derubare le persone del loro tempo ci sono anche tanti altri sistemi, ad esempio gli orari di lavoro contrattuali di 12 ore. Sì, qui è consentito che alcune categorie di lavoratori svolgano turni che coprono la metà di una giornata. Questo succede in particolare nelle professioni medico-sanitarie, ma non è raro che anche aziende di produzione e servizi chiedano con insistenza la copertura di fasce orarie estese.
Il mistero di come tutto questo sia legale, e perché il sindacato anche qui non promuova campagne di sensibilizzazione e azioni correttive contribuisce al senso di sfiducia che i lavoratori hanno nei confronti di una rappresentanza sempre più debole e insignificante.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto se davvero tutti i manager e i consigli di amministrazione siano così corrotti, inetti e spietati. Ovviamente no. Si trovano talvolta delle brave persone, ma non è facile per loro resistere e trovare uno spazio nell’alta gerarchia aziendale, dove di solito sono strategicamente collocati cannibali, gangster e truffatori.
Più spesso, il bravo manager che si pone democraticamente nei confronti dei lavoratori, che chiede la loro opinione e instaura un rapporto di autentica collaborazione, viene emarginato dagli altri dirigenti in un primo momento, anche con congiure e complotti ai suoi danni. Poi, se gli si vuole solo dare un avvertimento, c’è sempre una filiale in qualche provincia lontana dove trasferirlo. Altrimenti, qualora giudicato incorreggibile, è spinto a dare le dimissioni.
L’ossessione del controllo
Le persone non ne possono più di subire il lavoro, di ammalarsi di lavoro, di morirne. Il vero motivo per cui è difficile trovare lavoratori è che in realtà ciò che le aziende cercano non sono meccanici, idraulici, programmatori, elettricisti, commesse, impiegate, conducenti, tornitori, bensì martiri che mettano al centro della loro esistenza la missione di far arricchire degli sconosciuti maleducati in cambio dello stretto necessario per pagare le bollette e andare a mangiare un panino. Talvolta, anche in cambio della vita. I cosiddetti “infortuni sul lavoro” sono spesso il risultato di precise scelte imprenditoriali in cui si antepone la rapidità di esecuzione all’accuratezza e alla sicurezza.
Le cassiere di molti supermercati sono dotate di cuffia e microfono per poter immediatamente scattare quando il gerente impartisce gli ordini; i tecnici della manutenzione e gli autisti vengono tracciati minuto per minuto col GPS; ci sono app di verifica e conteggio del tempo impiegato sugli interventi svolti; è più frequente di quanto si immagini che alle persone impegnate in servizi al pubblico venga impedito di andare in bagno; certe procedure squisitamente burocratiche vengono anch’esse delegate al personale operativo, un modo sbrigativo di concentrare su una sola persona più ruoli retribuiti però con un solo, misero stipendio.
Chi deve lavorare così, sottoposto a un monitoraggio continuo, soffre, sta male, si deprime. Costretti a passare gran parte della loro giornata in uffici, officine, corsie, oppure itineranti per svolgere servizi di vario genere, i lavoratori non riescono a dare un senso a ciò che stanno facendo. Come si può credere che in queste condizioni si possa rendere al massimo ed essere produttivi? Non dovrebbe essere questo lo scopo di qualsiasi attività lavorativa?
Le certificazioni
Come fanno le aziende a restare nella legalità pur compiendo tutti questi abusi e infrangendo i codici - scritti e non scritti - che regolano i rapporti umani? Con una legislazione lacunosa, ovviamente, ma anche con le certificazioni.
Le certificazioni sono dei marchi di qualità che dovrebbero essere assegnati solo ai soggetti che se ne dimostrano meritevoli. Gli attestati servono soprattutto quando si è impegnati in appalti pubblici; solo chi dimostra col certificato di essere in possesso di determinati requisiti può partecipare alle gare indette dalle pubbliche amministrazioni. In realtà basta pagare. Non c’è niente di serio e concreto nelle certificazioni, a parte il guadagno degli enti certificatori e l’attestato di verginità che viene rilasciato all’azienda dopo ispezioni e controlli concordati in anticipo.
Le certificazioni possono essere di molti tipi, in genere si tratta di verifiche riguardo al rispetto di procedure interne, rapporti con clienti e fornitori, flussi operativi. Ma ci sono anche le certificazioni “etiche”, in cui l’ente accertatore controlla che non vi siano discriminazioni e altre anomalie nell’esercizio dei poteri e delle gerarchie. Anche in questo caso si tratta solo di una finta. La certificazione viene concessa comunque, anche nel caso in cui più testimoni segnalino un clima intimidatorio o altre situazioni che compromettono l’equilibrio psicologico dei lavoratori. Le relazioni finali vengono manipolate e smussate in modo da far apparire che è tutto in regola.
Il salario basso e inadeguato al costo della vita reale non è dunque la causa della difficoltà di reperire manodopera. Se nei posti di lavoro è ufficiosamente consentito calpestare in tanti modi diversi la dignità delle persone, dar loro ufficialmente uno stipendio da fame è solo la naturale, inevitabile conseguenza.
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La esorto a venire nel mio piccolo negozio e così le spiegherò perché parte di quello che ha detto, è assolutamente errato.