La lingua rivelatrice
Come il dialetto triestino ha messo in luce il mio lato peggiore, aiutandomi poi a sconfiggerlo
Ho sempre parlato in dialetto. Il dialetto è la mia lingua madre.
Già prima di andare a scuola sapevo leggere. Fumetti, etichette di prodotti alimentari, giornali e cartelloni pubblicitari erano i libri di testo che mia mamma adoperava per insegnarmi l'alfabeto, ed essendo tutti scritti in italiano io apprendevo anche questo senza neanche accorgermene.
Anche la TV e la radio mi esponevano alla lingua italiana che, tuttavia, restava per me un idioma alieno parlato solo da sconosciuti che apparivano sul teleschermo o, invisibili nell'etere, mandavano i loro messaggi attraverso il ricevitore Grundig che era in cucina.
Alle elementari scoprii - e ciò mi intimidì moltissimo - che, benché i compagni di classe parlassero quasi tutti in triestino, la maestra si rivolgeva a noi scolari in italiano, anche se qualche volta la sorprendevo a chiacchierare con le colleghe nella mia lingua.
Anche i bambini che in famiglia erano stati abituati a parlare in italiano, frequentando i coetanei assimilavano rapidamente il dialetto il quale, in poco tempo, diventava la loro lingua preferenziale, con rassegnato disappunto dei genitori.
Qualcuno forse immaginava che iniziando fin dalla prima infanzia a parlare solo in italiano il fanciullo avrebbe goduto di premesse educative più promettenti; talvolta era invece una certa attitudine snob a suggerire di escludere il vernacolo dagli strumenti di comunicazione; oppure poteva darsi il caso di ambienti familiari dove il dialetto non era noto e di conseguenza non poteva essere trasmesso alla prole.
Eppure, non c'era ragione di vergognarsene o provare imbarazzo.
Il dialetto triestino è una parlata veneta senza però la caratteristica cantilena, è indurito da tonalità slave e sassoni, ha fioriture greche e balcaniche, ed è stato utilizzato diffusamente nella vita quotidiana a casa, sul lavoro, nei negozi, per strada. Giovani e anziani, autoctoni e migranti, aristocratici e operai, ricchi e poveri, tutti parlavano o imparavano il dialetto perché, insieme allo sloveno e al tedesco, era la lingua più diffusa in città e nei dintorni, una lingua franca senza la quale tutte le etnie presenti sul territorio non sarebbero riuscite a comunicare con tanta facilità e a far diventare Trieste il porto dell'Impero d'Austria Ungheria.
Era lo stesso dialetto di Pasquale Revoltella, di Josef Ressel, di Srečko Kosovel, di Italo Svevo, di James Joyce, e persino di Margherita Hack, la quale, tra le sue inconfondibili toscanate, infilava esilaranti intermezzi in triestino patoco (patoco=genuino, verace, autentico).
Io stesso una volta ne sono stato incauto protagonista.
Stavo smontando dallo scooter e il casco integrale mi ostruiva la visuale laterale bassa. Non ero neanche riuscito a posare il piede a terra che una voce mi aveva messo sull'avviso con severità:
"Ocio che la me 'copa el can!"
Era proprio lei, la grande astrofisica fiorentina che per tanti anni aveva diretto l'Osservatorio Astronomico di Trieste, e io per un pelo non avevo calpestato il cagnolino che teneva legato a un lungo guinzaglio.
Mentre, a partire dal secondo dopoguerra, nelle città italiane i dialetti tendevano a sparire e ad essere rimpiazzati da una lingua più formale e unitaria, a Trieste questa estinzione non si notava. Fino a trent'anni fa, molti visitatori si stupivano di quanto l'uso del dialetto fosse ancora tanto radicato e comune nella mia città.
Era normale, chiedendo un'informazione, facendo acquisti o rivolgendosi in generale a persone sconosciute, parlare subito in dialetto con la sicurezza quasi assoluta che l'interlocutore avrebbe risposto allo stesso modo.
Poi un giorno mi sono accorto che quella sicurezza non potevo averla più, e che anzi diventava sempre più probabile che le persone ignote che incontravo parlassero solo in italiano, un italiano impeccabile, senza accenti, oppure colorito da varie inflessioni esotiche, ma irrimediabilmente senza le sfacciate vocali aperte che identificano un triestino già dopo due sillabe, qualsiasi lingua egli stia parlando.
Non riconoscevo la mia città. Ero straniero in patria. Non sapevo dove fossero finiti tutti quelli con cui avevo in comune uno dei segni più tipici che contraddistingue ogni affiliazione umana, il linguaggio. Mi sentivo a disagio, come se avessi subito un furto.
È a questo punto che mi sono reso conto di somigliare a chi è sempre sospettoso e inospitale, a chi ha paura che la "nostra cultura" venga cancellata e sostituita da altre, ai razzisti, ai nazionalisti, a chi crede ingenuamente che ciò che è stato possa continuare a essere per sempre.
Ho dovuto rielaborare i miei sentimenti impulsivi, prendendo atto che può succedere, nel corso della vita, di essere testimoni di trasformazioni che magari le generazioni precedenti non si sarebbero aspettate.
Così come un fiume modifica continuamente il bacino in cui scorre, e in occasione di eventi straordinari, come piene e alluvioni, il cambiamento morfologico è più evidente e rapido, anche il bacino culturale e linguistico di una zona subisce lo stesso processo nei frequenti momenti in cui la Storia è sottoposta a straripamenti e inondazioni.
Ora io stesso, quando apro una conversazione con gente che non conosco, inizio in italiano. E nelle rare occasioni in cui mi sento rispondere in triestino sono contento come se durante un soggiorno all'estero mi fossi imbattuto per caso in un vecchio amico.
Ma non provo più rammarico o nostalgia. Nel dialetto triestino, il passato remoto è l'unico tempo verbale che non esiste.
Vivo a Bruxelles da più di trent'anni, ma ho sempre parlato triestino con figli e nipoti.
Però qualche volta temo di usare parole ormai desuete, cioè credo che comunque la lingua si evolve, e la mia è rimasta la stessa da quando sono partita...
Bella introspezione quando parli della tua spontanea reazione de paura di perdere insomma le radice. Per me, straniera, la lingua triestina è apparsa un giorno quando i nostri amici vicini del Carso hanno litigato un po’ davanti da noi, come si ci invitavano ad un ingresso nella loro vita di famiglia, con il can, il piatto che vanno a preparare per magnare e altre cose tan importante nella vita che non si potevano ne parlare in modo serio nella lingua di Dante però nella del Carso. Il fiume può cambiare suo bacino, non cambia la sorgente.