La mia nuova carta d'identità
Conseguenze neurologiche dell'esposizione anche sporadica alla pubblica amministrazione
Faccio tutto quello che posso per evitare di frequentare gli uffici della pubblica amministrazione. È per la salute, mi prende come un tremore quando sono davanti a uno sportello, e se dietro c’è qualcuno che non ha voglia di collaborare il tremore aumenta. Qualche rara volta però proprio bisogna.
Allora mi dico che magari non sarà così male, che dall'ultima visita nel regno delle favole stampate su carta bollata ci sarà stato qualche pur minimo progresso, un leggero avanzamento. Ma anche le sole premesse mi mettono subito di cattivo umore.
Per rinnovare la carta d’identità, fino a qualche tempo fa bastava andare in una qualsiasi sede dell'anagrafe comunale con un paio di foto in tasca, si aspettava il proprio turno e in dieci minuti era tutto fatto.
Adesso bisogna prendere appuntamento, come dal dentista. Ci sono lunghe liste di attesa. Io sono stato abbastanza fortunato, ho avuto il mio dopo un mese, e ho concluso che, se davvero c’era stato un miglioramento, di sicuro non riguardava l’accessibilità al servizio.
Finalmente arriva il giorno fissato e mi presento all'ufficio. Consegno la foto e la vecchia carta d’identità. L’impiegato, senza nessuna espressione in viso, mi dice:
“Il vecchio documento è ancora valido”.
“Sì, lo so, scade tra un paio di settimane, sono venuto apposta a rinnovarlo per non trovarmi senza” gli dico, già con un filo di inquietudine.
“Ora dovrò annullarlo, e nell’attesa che arrivi quello nuovo lei non potrà usarlo per andare all’estero” mi spiega.
“Ma come” chiedo alzando leggermente il volume “vengo a rinnovare per tempo la carta d’identità, devo aspettare una settimana, e nel frattempo resto comunque scoperto? Che senso ha?”
“Allora può tornare in un altro momento” dice, forse sperando di essersi tolto un impiccio, almeno per oggi.
Ci penso su per tre secondi.
“Ok, non importa, per qualche giorno non succederà niente, procediamo”.
“Bene. Le farò qualche domanda”
“Sono pronto”
Legge sullo schermo la sequenza del protocollo, mi chiede statura, numero di telefono, scelta su donazione organi e indirizzo email. Queste informazioni sono costretto a comunicarle ad alta voce in presenza delle altre persone che stanno aspettando, perché tra me e l’impiegato c’è una vetrata, una spessa lastra di vetro più adatta a una banca che all’anagrafe. Anche se avvicino la bocca al foro o mi abbasso sulla fessura per il passaggio dei documenti, non è possibile mantenere la riservatezza.
“Ora le prenderò le impronte digitali”
Lo scanner per le dita deve procurargli un piacevole brivido, perché sembra improvvisamente più sveglio.
“Facciamo prima una prova” dice, facendo passare sotto la fessura il piccolo dispositivo dove il laser verde smeraldo è pronto ad acquisire l’immagine dei miei polpastrelli.
“Appoggi… Alzi… Su… Giù… Su… Giù… Bene. Possiamo cominciare. Mano destra, dito indice… Su… Giù… Su… Giù… Mano sinistra, dito indice… Su… Giù….Su….Giù… Grazie, abbiamo terminato”
Segue un gran daffare con firme, pinzatrice, forbici (per tagliare la vecchia carta d’identità), e realizzo che per rilasciare un documento elettronico viene impiegata una quantità esagerata di fogli di carta, un plico di quattro o cinque pagine.
“Sono 22 euro, se paga in contanti deve darmeli giusti perché non ho da darle il resto.”
L’impegno e la concentrazione dell’impiegato sono encomiabili. Indaffarato com’è, non mi azzardo a interrompere il flusso della procedura la quale, sono sicuro, prevede anche di chiedermi se desidero che il documento sia redatto anche in inglese e sloveno, come dice la normativa che vige nella zona di Trieste.
“La nuova carta d’identità le arriverà a casa. Il nome di qualcuno che vive con lei, per la delega nel caso lei non sia a casa per ritirare personalmente la busta?”
Di nuovo, devo informare tutti i presenti degli affari miei.
Ancora qualche minuto di taglia, cuci, pinza, firma, verifica, il malloppo di fogli A4 passa sotto la fessura e vengo congedato.
“Tra una settimana riceverà la sua nuova carta d’identità. Arrivederci”
“Ma, scusi…” chiedo “ e l’opzione di avere il documento in tre lingue?”
La sua faccia di colpo si scioglie come un gelato colpito dal getto di un asciugacapelli, gli cedono le mascelle, diventa beige.
“Quello è facoltativo, doveva chiedermelo lei” dice.
Comincio a sentirmi male.
“Io dovevo chiederglielo? Io? Mi ha chiesto la taglia delle mutande, cosa farne del mio fegato in caso di morte, anche se sento che sta diventando inutilizzabile; la signora qui accanto adesso se vuole può mettere il mio numero in rubrica e rivenderlo ai call center, tutti hanno saputo che non convivo con Angelina Jolie, e sarei dovuto essere io, proprio io, a chiedere se voglio la versione multilingue della mia carta d’identità???”
“Vede, è facoltativo…. Sì, avrebbe dovuto chiedermelo prima” insiste l’uomo beige.
Riesco a mantenere una certa compostezza, anche se mi sento in bilico.
“Ok, non fa niente” dico. “Mi dispiace per questo equivoco. Ormai sono qui, correggiamo questa cosa, rifacciamo tutto daccapo”
Interviene a quel punto un secondo impiegato che sta servendo un altro utente. Si rivolge a me e dice: “No se pol”1
Ecco, sta arrivando, è qui, il tremore che puntualmente insorge quando sono in un ufficio della pubblica amministrazione sta scuotendo le mie gambe, le mie spalle. Il sistema nervoso si accartoccia, il vento prodotto dalla rotazione delle mie palle spettina la signora che stanotte mi chiamerà per farmi degli scherzi telefonici.
“Perché mi avete chiesto tutto ma non questo?”
“Non dobbiamo chiederglielo, non è nostro compito, il regolamento non ce lo impone, è facoltativo” continua pedante l’altro impiegato.
“Anche se il regolamento non ve lo impone, potrebbe però farlo la vostra intelligenza. Tra tutte le cose che mi avete chiesto, perché avete ritenuto che questa fosse meno importante?” chiedo, cominciando a prendere giri. E poi torno all’attacco: “Rifacciamo tutto daccapo”.
“No se pol, è già tutto stato inviato in tempo reale, la carta d’identità viene fatta a Roma. Quando la riceve, torni qui e ce la porti, la rifaremo e dovrà aspettare un’altra settimana per avere quella multilingue”
Il tremore ha ormai raggiunto una magnitudo critica. So per esperienza che è inutile discutere con chi al buon senso preferisce gli schemi ripetitivi. Mi è finalmente chiaro il motivo dello spessore insolito del vetro divisorio, si trova sempre qualcuno a cui far perdere la pazienza; loro sanno di avere tante lacune, ma anche di essere imbattibili nel far andare in bestia la gente.
Esco dall’anagrafe con un dubbio e una constatazione.
Il dubbio: chissà se è vero che qualche dirigente dei servizi anagrafici ha ordinato di non mettere al corrente il cittadino sul diritto di ottenere un documento d’identità plurilingue, o se è stata solo una sbadataggine di cui non volevano prendersi la responsabilità. Se fosse vera la prima ipotesi, credo sia un penoso sotterfugio per far radicare sempre più il provincialismo dilagante, che qui a Trieste è la diretta conseguenza di un ridicolo nazionalismo. Se invece hanno dimenticato di avvisarmi, bastava dirlo, avrei apprezzato la sincerità, di sbagliare capita a tutti.
La constatazione: in Italia è sempre il cittadino che deve sbattersi per ottenere servizi e informazioni dagli uffici pubblici, e non viceversa come in tutti i paesi civilizzati. L’efficienza della pubblica amministrazione è poi inversamente proporzionale alla sua informatizzazione: più si dota di strumenti tecnologici, meno riesce ad aiutare i cittadini. Non per colpa della tecnologia, ma perché i burocrati non sono capaci di sfruttarla come si deve.
Un qualsiasi modello di intelligenza artificiale sarebbe stato meno rigido e irragionevole di quei due addetti comunali. Forse affidare la pubblica amministrazione alle macchine, escludendo completamente l’intervento umano, potrebbe non essere del tutto una cattiva idea, a patto però che le macchine non vengano istruite dagli impiegati.
In dialetto triestino “non si può”. È diventato quasi un motto per rivendicare l'orgogliosa inerzia tipica di una mentalità ostile a qualsiasi cambiamento ed evoluzione.
Hai tutta la mia solidarietà. Vivo in Belgio, la burocrazia ovviamente esiste, ma non è perversa e vessatoria come in Italia. Mi stupisco sempre come qualcosa che per me è banale, tipo un bonifico in banca, qui preveda una serie di scelte che non capisco bene, MAV di 2 tipi, bollettino postale, f24 e via dicendo...
Un iban che paga, un iban che riceve, una causale codificata in 12 cifre ed è fatto.
Le compagnie di luce acqua gas le tasse o le ssicurazioni, mio figlio a cui faccio un regalo, tutti quelli che hanno un conto corrente hanno un iban, sufficiente per qualsiasi movimento