Ancora adesso, dopo cinquant'anni, ogni tanto ripenso alla storia che ci aveva raccontato il nostro compagno di classe in terza elementare, e continuo a sentirmi male come se la ascoltassi per la prima volta.
Suo papà faceva il cuoco all'Italsider - quella volta le mense aziendali erano veri e propri reparti interni, con personale direttamente alle dipendenze dell'impresa - nello stabilimento siderurgico di Trieste, la ferriera, quella che poi nel corso del tempo avrebbe cambiato numerose proprietà fino alla chiusura dell'area a caldo, nel 2020.
Un giorno, dopo il turno alla mensa, l'uomo era tornato a casa sconvolto. La moglie gli chiedeva cosa fosse successo e lui non rispondeva. Poi si erano chiusi in camera e parlavano a bassa voce per non farsi sentire, ma i bambini erano riusciti a origliare.
Un operaio era caduto nella colata di acciaio fuso e del poveretto non era rimasto più niente. Era stato deciso che, per celebrare il funerale, nella bara sarebbe stata collocata una sbarra di acciaio ricavata dallo stesso lotto di fusione.
Immaginai l'interno della cassa, le pareti scure, lo spazio ristretto e il pesante blocco di metallo ancora incandescente adagiato sul fondo. Una visione che non mi ha più abbandonato e che riaffiora periodicamente, soprattutto quando sento di altri incidenti sul lavoro, cioè troppo spesso.
In Italia, ogni mese perdono la vita sul lavoro una media di 80 persone. Da gennaio ad agosto 2023, i decessi sono stati 610, inclusi quelli avvenuti in attività irregolari e quindi non registrati nelle statistiche ufficiali. Nell'intera Unione Europea nel 2018 erano stati 3332 gli incidenti ad esito fatale, di cui 523 solo in Italia. Ma nel 2022, l'olocausto italiano è stato di ben 1091 persone.
Numeri sparsi, numeri che non significano niente perché anche una sola persona che non ritornerà più a casa dopo aver svolto un'attività di cui presumibilmente non gli importava niente e che era costretta a fare solo per pagare bollette e mangiare cibo del discount, anche una sola persona che muore di lavoro ci dice che il sistema economico in cui ci siamo cacciati ha grandi falle da cui escono fiotti di sangue.
Oggi è più difficile che qualcuno cada dentro a un altoforno ma i modi di morire sono infiniti, e ogni volta dobbiamo trattenere la nausea ascoltando il silenzio di Confindustria o delle associazioni di categoria, le ipocrite parole di cordoglio della politica, i vuoti, ripetitivi piagnistei dei sindacati (4 ore di sciopero dei dipendenti RFI è il valore di testimonianza attribuito ai cinque operai morti pochi giorni fa sui binari a Brandizzo), e aspettando che, dopo qualche giorno o qualche settimana, altri nomi vengano aggiunti all'elenco dei morti di lavoro. È questa la definizione che da adesso in poi dovremmo abituarci a usare: morti di lavoro, non sul lavoro.
Non si muore perché si sta lavorando, si muore perché il lavoro, così com'è concepito, progettato e organizzato (o disorganizzato) contempla la possibilità neanche troppo remota che ogni tanto qualcuno muoia.
È un rischio che le aziende già tengono in considerazione, un rischio d’impresa con la pelle altrui, ma quando firmi il contratto non c'è scritto che ti impegni a rischiare ogni giorno la vita.
Si può morire anche facendo una passeggiata per i fatti propri o preparandosi la cena, è evidente. Ma perdere tutti gli anni che ti restano perché devi fare in fretta, perché il cliente vuole che sia fatto entro domani, perché hai un capocantiere che ti sta col fiato sul collo e ti urla di muoverti, perché il tempo è denaro e sui fogli elettronici c'è scritto che quel lavoro lo devi terminare in un'ora invece che nelle tre o quattro che servirebbero davvero, in un carosello di appalti e subappalti, no, questo è solo gioco d’azzardo.
Ti fanno fare i corsi sulla sicurezza, un business milionario di aria fritta certificata che serve al datore di lavoro per dire "ehi, ti sei fatto male? Cazzi tuoi, non hai seguito i protocolli di sicurezza" quando tutti sanno che raramente quei protocolli vengono applicati nella realtà quotidiana perché rallenterebbero il lavoro, perché costerebbe troppo, ma che importa, tanto nessuno controlla e nessuno si impone per farli rispettare.
L'idea di lavoro come fino ad oggi siamo stati ammaestrati ad accettare va demolita dalle fondamenta e poi ripensata da zero, a partire dall'orario di lavoro (siamo ancora fermi alle quaranta ore settimanali, un modello introdotto nel 1914 nella fabbrica di automobili Ford) fino all'effettivo utilizzo della tecnologia e dell'automazione per alleggerire il carico che grava sul soggetto umano.
Ci avevano detto che coi computer avremmo lavorato meno, con maggior efficienza e più produttività, eppure passiamo sempre più tempo sul posto di lavoro dove, invece di risolvere problemi, ne creiamo di nuovi, e la qualità dei risultati finali è mediocre o decisamente scadente.
Lo hanno capito molti giovani italiani che stanno cominciando a rifiutarsi di lavorare a condizioni di schiavismo e scelgono senza rimpianti di emigrare per poter aspirare a rapporti professionali equi e con stipendi adeguati. Continuano a non capirlo la gran parte delle imprese che, invece di aggiornare le loro politiche aziendali vecchie di un secolo, hanno puntato gli occhi su un nuovo serbatoio di manodopera a basso costo, gli immigrati o, almeno, quei pochi immigrati che decidono di restare in Italia, visto che il Nord Europa è molto più attrattivo e vantaggioso anche per i giovani nordafricani e mediorientali che cercano approdi accoglienti dove costruirsi una nuova vita.
Morire di lavoro non significa solo letteralmente finire in una bara. Può anche essere una morte metaforica: piegarsi al ricatto, accettare di essere svalutati, sfruttati, sottopagati, derubati dei diritti, ridotti a un utensile che, quando si rompe o diventa più fragile, viene buttato e sostituito con un altro che presto farà la stessa fine.
Nel primo caso, la morte del corpo fisico avviene quasi sempre a causa di una evitabile, crudele fatalità. Nel secondo, la morte della dignità del lavoratore è frutto di una precisa strategia aziendale.