Sarebbe potuta essere una domenica tranquilla. Con calma, in tarda mattinata, ho raggiunto l'altipiano per fare una camminata. I sentieri in mezzo alla landa di ginepro, scotano e sassi erano battuti dal vento, la prima vera bora di questo autunno.
Sarà perché sono nato in un giorno di bora, ma nelle sue raffiche mi sono sempre sentito a casa. Credo che lei lo sappia, perché ogni tanto mi fa dei regali.
Oggi ad esempio modellava le nuvole con morbide curve sovrapposte in formazioni levigate come le vasche calcaree di Pamukkale. Negli ultimi anni vedo tipi di nuvole che non avevo mai notato prima. Forse non guardavo così spesso il cielo, oppure sono i segni artistici delle mutazioni climatiche.
Per la prima volta dopo sette mesi ho sentito freddo. Gli arbusti si piegavano, i cespugli fremevano, le mie orecchie gelavano. Non avevo pensato di portare un berretto. L'estate è durata così a lungo che mi sono dimenticato dell'esistenza di altre stagioni.
Quando si cammina dentro la bora, è difficile distinguere se la sua voce provenga dal cielo o da dentro di noi.
Ho imboccato un sentiero secondario. Pochi passi, e sembrava di aver attraversato un intero continente. La bora restava intrappolata nelle chiome degli alberi e non riusciva a penetrare nel bosco.
Lungo il percorso, una costruzione diroccata nella boscaglia; sono rimasti solo i muri perimetrali con le aperture delle finestre. È un vecchio posto di guardia, una casermetta di confine dell'esercito jugoslavo.
Quando ci addentriamo nel Carso non facciamo più caso a dove ci troviamo, se di qua o di là, se a Trieste o in Slovenia. La caduta dei confini è stata una benedizione. Potersi muovere liberamente dove si vuole senza dover dimostrare chi, dove e perché: dovrebbe essere un diritto umano garantito, il minimo che si possa pretendere.
A poca distanza dalla caserma in rovina, sul margine opposto del sentiero, il bosco si dirada, la bora torna a intonare il suo lamento, una radura sul ciglio del precipizio, e là sotto, in lontananza, in una foschia di pulviscolo azzurrino, il mare, la mia città.
Di nuovo col vento che mi confondeva e mi spingeva, mi tratteneva e mi ripuliva, sono arrivato sulla strada del ritorno e ho iniziato a scendere a valle.
È una stretta carreggiata di curve e qualche tornante. C'è una macchina blu scuro targata Ljubljana ferma in mezzo alla strada, un po' di sbieco, con le portiere aperte. Non sono ancora abbastanza vicino da capire cosa stia succedendo, ma non sembra niente di buono.
Quando arrivo lì, è un brutto sogno. Due uomini in divisa, polizia slovena con auto civetta, hanno fermato un gruppetto di profughi che tentavano di raggiungere l'Italia passando per i boschi, la famosa "rotta balcanica". Erano a un passo dalla meta, sarebbero bastati letteralmente pochi metri ancora, ma li hanno intercettati.
Li hanno fatti sedere sul bordo della strada e obbligati a togliersi le scarpe. Ma dove vuoi che scappino, se sei lì a tenerli sotto tiro.
Ripenso a quello che mi era venuto in mente poco fa, la caduta dei confini, il diritto di potersi spostare liberamente nel mondo, e davanti a me ci sono una decina di uomini che tremano di freddo tutti in fila uno a fianco all'altro, le scarpe allineate davanti a loro, e altri due uomini che li hanno in pugno dopo aver in un solo istante vanificato un lunghissimo viaggio pieno di pericoli e di speranze.
Culturalmente e socialmente avanzata sotto molti punti di vista, la Slovenia ha però una legislazione in contrasto con le norme europee che rende molto difficile la richiesta di asilo politico. I migranti che vengono trovati nel suo territorio sono di solito respinti in Croazia. Ed è ben noto che la "riammissione" in Croazia significa di solito un iter umiliante e violento, e la deportazione in Bosnia Erzegovina.
Mentre gli passo vicino, il mio sguardo incontra per un momento quello di uno dei poliziotti, duro e sospettoso, e poi di un profugo. Nei suoi occhi c'è il punto zero, l'ignoto. Tutto ciò che hai fatto finora non è servito a niente e, davanti a te, ciò che puoi vedere sono solo le tue scarpe.
Poteva essere una domenica tranquilla, ma non c'è da stare tranquilli. Se possiamo legalmente infliggere limitazioni della libertà di movimento a gente che non ha commesso crimini e cerca rifugio, non abbiamo nessuna garanzia che lo stesso trattamento un giorno non venga riservato anche a noi. La fortuna non dura per sempre.