Sono uscito da solo nel pomeriggio senza sapere esattamente dove andare. Era tanto tempo che non camminavo, che non mi stancavo, che il sudore non usciva a causa di uno sforzo muscolare. Avevo bisogno di riconnettermi con il corpo. Con me avevo solo la borraccia ficcata nello zaino e una zavorra di paura e dilemmi.
A Cattinara, vicino alla pineta, quella che uomini insignificanti vorrebbero abbattere, mi sono infilato nel sentiero che scende sul fianco del colle e si congiunge alla pista ciclabile. L'ho percorsa per qualche chilometro. Era bianca, deserta e caldissima.
All'altezza di Sant'Antonio ho deviato dal tracciato e sono entrato in un altro sentiero che non conoscevo ma che, secondo i miei calcoli, avrebbe dovuto farmi ascendere alla zona della foiba di Basovizza. Però qualcosa non tornava perché, dopo una breve salita, invece di continuare a inerpicarsi, il sentiero proseguiva senza pendenza in direzione del mio punto di partenza.
Indeciso se tornare indietro o assecondare il destino, ho notato a un certo punto che il bosco si apriva bruscamente sopra uno scosceso cumulo di terra friabile su un lato del sentiero.
L'ho risalito tenendomi sugli arbusti, sprofondando nella terra smossa di riporto, inciampando e perdendo l'equilibrio un paio di volte. In cima mi sono trovato davanti alla rete di recinzione di una cava.
In un punto dove la rete era un po' sollevata e lasca ci ho strisciato sotto.
La cava è in attività, ci sono scavatrici, ruspe e altri macchinari. Ma in questi giorni di festa non c'è anima viva. Anzi, il posto è talmente quieto e solitario che entro il suo perimetro sorprendo tanti caprioli che si riposano all'ombra e che al mio passaggio scattano in una fuga scalpitante.
Salgo ancora sotto il sole il largo tracciato che va a zig zag tra i cumuli di rocce e terra. Altri caprioli saltano via quando fiutano il potenziale predatore.
Al termine dello sterrato, dopo aver macinato un dislivello di un centinaio di metri, un cancello mi sbarra l'uscita. Ma c'è un varco laterale che si può scavalcare senza troppi problemi.
Come previsto, dopo un altro tratto di sentiero dal quale si vede il monte Carso e la Val Rosandra, sono arrivato dove mi aspettavo. Un'indicazione per la Grotta Nera conferma che sono nelle vicinanze della foiba di Basovizza.
Come i caprioli, adesso anch'io ho bisogno di ombra. Entro in una boscaglia fresca e bevo qualche lunga sorsata d'acqua dalla borraccia.
La protezione degli alberi dura ancora poco. Senza preavviso, una vasta savana giallastra si spalanca tutto intorno. Ai lati del sentiero, erba alta, eringyum ametista sui quali ronzano le api, e gli ombrelli bianchi del finocchio selvatico.
Resto a guardare il quadro silenzioso. È troppo silenzioso. Non sento le cicale. Gli unici suoni sono isolati ronzii, fruscii, cinguettii.
Da quando ho iniziato l'escursione ho incontrato solo una piccola comitiva di ciclisti sloveni nel primo tratto, poi più nessuno. Oggi dovrei sentirmi solo, soprattutto qui, in questo solenne spazio selvatico che mi circonda. Ma so con certezza che non è così: in questo momento sono entrato a far parte di un organismo superiore, e mi sorprende scoprire di essere stato accettato, di non essere considerato un intruso. Sono stato accolto senza dover dare spiegazioni, senza dover dimostrare niente.
Il sole è più mite. In lontananza suonano le campane della chiesa di Basovizza, è l'ora del Vespro.
Inseguo i rintocchi e, mentre percorro uno stretto passaggio delimitato da muretti a secco, da un varco tra le pietre vedo una grande radura. Al suo margine, dove il bosco torna a chiudersi, c'è una lapide con un piccolo altare. Scavalco il muretto, attraverso il prato e vado a vedere. Ogni tanto sul Carso si trovano di queste lapidi commemorative, ricordi di morti cruente, di caduti di guerra, di inspiegabili e fatali incidenti.
Ma quella che ho visto è una lapide vivente, il tronco di un frassino centenario ricoperto di licheni che veglia su un altro frassino defunto il cui ceppo mozzo, grigio come pietra calcarea, giace proprio lì davanti.
A differenza della savana di poco fa, questo prato è verde, rasato, umido. Qua e là ci sono balle di fieno cilindriche, agglomerati di fili d'erba tenuti insieme da fili di plastica.
Una sottile pista appena visibile tracciata sul campo mi conduce sulla strada asfaltata.
La mia è una vecchia borraccia di alluminio smaltato, non ha un isolamento termico, e l'acqua dopo un po' diventa un brodino tiepido.
Così sono entrato a Basovizza, un villaggio carsico che riesce a coniugare con naturalezza la tradizione slovena dell'altipiano, l'ospitalità per i gitanti della domenica e il multiculturalismo degli scienziati di tutto il mondo che fanno esperimenti e studiano presso l'acceleratore di particelle installato lì a due passi.
Mi sono sistemato all'aperto in un locale che piaceva molto anche a mio nonno, un'osteria che negli anni ha cercato di cambiare pelle e identità e che adesso ha per fortuna accettato la sua vocazione di essere un posto popolare e alla buona ma non per questo meno accogliente. Una signora sorridente mi ha portato uno spritz bianco freschissimo.
Me ne sono stato lì seduto a godermi la sera che scendeva, la pesantezza dei piedi affaticati e le chiacchiere degli sconosciuti negli altri tavoli in un sabato di agosto in cui ho ritrovato un po' di pace senza però risolvere nessuno dei dubbi che in questo periodo mi tarlano i pensieri. Ci speravo, quando alcune ore fa avevo allungato il primo passo di un pomeriggio senza destinazione. Ma i cambiamenti, quelli veri, arrivano quando non li cerchi, quando hai smesso di sperare, come quando imbocchi un sentiero e poi esci dal tracciato senza neanche accorgertene.
Gli ultimi cinque chilometri che mi servivano per tornare a casa li ho fatti lentamente, non avevo fretta, alternando i prati e la strada statale, la ripida Scala delle Vacche, un sentiero il cui nome racconta di tempi antichi, e il raccordo autostradale.
Se scendi a piedi da Basovizza, o se vuoi raggiungerla partendo da Cattinara, ti ritroverai a dover camminare rischiando la vita su tratti di strada dove non ci sono marciapiedi o passaggi protetti. Roba progettata e autorizzata da gente che ha dimenticato la posizione eretta e che, pur avendole, non usa più le gambe.
Da Cattinara si vede il mare, il Golfo di Trieste e, come in un miraggio in dissolvenza, le lagune d’Occidente. Il sole è ancora sospeso sopra l'orizzonte, dondola nei riverberi di aria calda in attesa che venga il momento di inabissarsi sull'altra faccia della Terra, da qualche parte nell'Oceano Pacifico.
L’acqua residua nella borraccia sciaborda dentro lo zaino nel crepuscolo azzurrino della fine di un giorno d’estate. Ero uscito per una passeggiata, ho fatto il giro del mondo.
Viaggio esattamente tra gli sguardi che descrivi e le parole che usi; vado proprio lì dove racconti. Grazie ( una sola differenza: io, come donna, non mi sentirei affatto sicura nel percorrere luoghi così solitari. Purtroppo).