Sono solo da poco passate le dieci e la città è già inanimata. Poche automobili in giro, le persone che camminano sigillate dentro giacche a vento e berretti calati sulla fronte sono rare ombre sui muri dei palazzi. La bora che per tutto il giorno ha scosso tetti e alberi, che ha ammucchiato foglie secche e spazzatura negli angoli, sotto i marciapiedi, nelle androne, stasera ha accelerato la sua marcia. Ci sono un paio di gradi sottozero ma le orecchie e il naso, se potessero parlare, ne dichiarerebbero cinque o sei in meno.
Sono in pieno centro e devo tornare a casa a piedi. Lo scooter mi ha abbandonato e non ho neanche il portafoglio. Non è lontanissima casa mia, saranno poco più di quattro chilometri, però tutti in salita, una salita ripida a sufficienza da farmi venire il fiato corto già all'inizio, quando salgo la scalinata che sbocca sull'erta di asfalto dove la luce giallastra dei lampioni proietta le ombre dei rami che tremano di freddo anche loro.
Di giorno avrei preso una scorciatoia dentro al boschetto. Si tratta di una vasta macchia superstite di verde urbano dove si intrecciano sentieri e vialetti senza illuminazione. Però non me la sento di cacciarmi nel buio nero e ululante di questa notte gelata, e allora seguo la strada, più lunga, più impervia ma anche più rassicurante.
È davanti a questa scelta che comincio a giocare con un pensiero fastidioso, un esercizio mentale reso più verosimile dal fatto che sono qui, da solo, al freddo, senza un mezzo di trasporto e senza soldi. Una condizione che so essere temporanea. E se invece non lo fosse?
I miei passi diventano più pesanti adesso che l'inclinazione della salita si è accentuata. Non ho neanche un vero e proprio berretto, ma solo il cappuccio di una felpa che i refoli gonfiano come la randa di un'imbarcazione che cerca di rientrare in porto per sfuggire alla burrasca.
Mi fermo un minuto posandomi su un muretto per placare il respiro e stringere i lacci del cappuccio. Non ho più incontrato anima viva, neanche qualcuno che porti il cane a fare la passeggiata serale. Sono tutti a casa, quelli che ce l'hanno. Continuo con l'esercizio mentale: come mi sentirei adesso se non avessi un posto dove andare?
Riprendo a salire. Con l'altitudine diminuisce anche la temperatura, bastano cento metri di dislivello per sentire la differenza, le mie orecchie non sanno parlare ma urlano, e io mi maledico per aver tolto dalla tasca del giubbotto il berretto di lana e averlo lasciato sull'appendiabiti. Anticipo con l'immaginazione il piacere di entrare in casa, degli occhiali che subito si appannano, il gatto che viene a salutarmi.
Ma il punto di arrivo sembra allontanarsi man mano che avanzo, è una delle illusioni con cui la bora ti inganna, una burla a ottanta chilometri all'ora. Cammini e ti sembra di restare fermo; fai trenta passi con la testa abbassata per difenderti dalle raffiche, e quando la rialzi scopri di averne fatti sì e no tre; stai scarpinando da un'ora e invece sono passati solo cinque minuti.
Se questo succede a me, che nella bora sono nato - e non per modo di dire, perché il giorno in cui ho messo la testa fuori da mia mamma era una giornata di bora scura e pioggia fredda - e che con questo vento di nord-est ho un rapporto amichevole e affettuoso, non mi dà noia, non mi disturba, e anzi mi consola, capisco che per chi non è abituato possa essere anche spaventoso.
Aggiungo l'ultimo elemento all'esperimento: la paura. Ho tutto quello che mi serve per provare a sentire almeno vagamente quel che sente una persona che cammina da sola senza mezzi, senza risorse, senza futuro, in un posto sconosciuto, cercando un rifugio con la paura di non riuscire a trovarlo. Anche se è una simulazione, le lacrime sono trattenute solo dalla bora che le ricaccia dentro agli occhi.
La salita è meno ripida. È pur sempre una salita, ma rispetto a prima ho quasi l'impressione di camminare sul piano. Giro per una laterale, mi infilo in strade private di edifici con cortili dove gemono alberi capitozzati. Il primo e unico segno di vita dopo un'ora è il basculante di un garage che si sta chiudendo. Se davvero fossi un povero vagabondo nella bora, spaurito, infreddolito e stanco, mi infilerei lì dentro per passare la notte al riparo.
Con un po' di fortuna forse riuscirei a sgattaiolare via la mattina dopo, ma è più probabile che qualcuno mi sorprenderebbe raggomitolato vicino ai tubi del riscaldamento e farebbe un mucchio di storie, o chiamerebbe la polizia accusandomi di essere entrato in una proprietà privata, e io non conoscerei la loro lingua e così non potrei raccontare tutta la mia storia e spiegare che anch'io una volta avevo una casa e un garage, ma sono dovuto scappare e sono arrivato fin qui, in questa città dove ti sembra di muoverti e invece stai fermo in un vento gelido, che è comunque preferibile a stare con gli uomini che comandano nella terra da dove vengo.
Ancora qualche centinaio di metri e sono a casa. Apro la porta, gli occhiali si appannano, il gatto continua a dormire. Dovrò riparare lo scooter ma, se non si fosse guastato, questo esercizio mentale non avrebbe mai avuto luogo, e io non sarei riuscito a sentire fisicamente neanche per un attimo la pena che si portano dietro i nostri fratelli e le nostre sorelle che un giorno potremmo essere noi.
Posso dire? Commovente
Scritto e raccontato in audio molto bene. Fa riflettere, grazie